martedì 21 settembre 2010

L'altra faccia della popolazione romanì nascosta dai media

Nazzareno, Santino, Bruno, Ivana, Eva, Yuri, ecc. non sono mosche bianche nella popolazione romanì ma alcuni dei tantissimi esempi positivi.



Francesca Paci del quotidiano La Stampa è venuta in Abruzzo per incontrare alcuni rom, professionisti, impiegati, artigiani, operai, infermieri, ecc. Oggi il suo articolo con interviste e foto è pubblicato sul quotidiano La Stampa.

Giovanni sorride verso l'obiettivo mentre risuola il tacco del sandalo rosso dietro il banco sommerso dalle scarpe della bottega nel cuore di Lanciano, 36 mila anime arroccate tra la Majella e il mare: "Buon sangue non mente: sembro mio padre quando ferrava lo zoccolo del cavallo". Tempo due ore e ci ripensa: "Mia figlia mi ha chiesto di non espormi, in questo periodo esce con un ragazzo e preferisce non sappia che siamo una famiglia rom". 

Circa il 60 per cento dei 170 mila rom e sinti che vivono nel nostro paese sono italiani come il calzolaio Giulio, eredi dei pionieri sbarcati alla fine del 1300 sulle coste adriatiche per lasciarsi alle spalle le guerre degli Ottomani. Molti rivelano nei lineamenti le antiche origini indiane, alcuni ostentano la propria identità indossando gilet di gusto balcanico o lunghe gonne fiorate, la maggior parte ha una casa, un lavoro, un conto in banca. Eppure, in qualche angolo remoto della coscienza collettiva dove sono impressi i nomi dei clan criminali Casamonica, Di Silvio, Ciarelli, restano comunque tutti diversi, nomadi come quelli cacciati oggi dalla Francia di Sarkozy.
"L'integrazione assomiglia all'amore, si fa in due: quando vengono accettati senza che si tenti d'assimilarli, rom e sinti pagano le tasse, servono nell'esercito, i loro figli studiano e arrivano fino all'università" osserva Santino Spinelli, musicista e docente di lingua e cultura romanì all'università di Chieti. Le differenze esistono, ammette alternando una forchettata di spaghetti al pesce a un sorso di vino Fragolino: "La cultura rom non distingue il mondo dell'infanzia da quello degli adulti. Se per esempio il papà va a dormire alle tre di notte o la mamma chiede l'elemosina i bambini li seguono. E' naturale, non si tratta di sfruttamento.
Nell'assenza totale d'una quotidianità la scuola è l'ultimo dei problemi". Difficile trovare uno studente che reciti le tabelline nei dormitori improvvisati sotto i cavalcavia del quartiere romano della Magliana, dove gli abitanti minacciano le barricate.

Qui a Lanciano però, a Pescara, nell'Abruzzo da 7 mila rom e neppure una roulotte del tipo ammassate nei campi nomadi alle perfierie delle grandi città, l'eccezione è la regola e capita tranquillamente d'incontrare lo "zingaro" Fioravante al volante del furgone portavalori o l'altro, supermanageriale, alla plancia di comando d'una filiale della Bls di Chieti.



Perché facciano "outing" ci vorrà ancora tempo, ma sono lì.

"Otto anni fa, quando sono stato eletto, i rom non si sognavano neppure d'entrare in Municipio.
Ora sono ospiti fissi, ci conosciamo, ragioniamo, affrontiamo le difficoltà man mano che si presentano" racconta il sindaco Filippo Paolini, un avvocato ambientalista che assomiglia a Gianfranco Fini, parla come Vendola, negozia come un vecchio democristiano e milita da sempre nelle file di Forza Italia.
L'obiezione ai compagni di partito è tattica prima ancora che strategica: "Posto che quanto sta facendo il governo francese contro i nomadi è una forma di deportazione, la linea dura stile Sarkozy-Maroni non funziona, non si amministra senza integrare le diversità".
E pazienza se l'ultimo rapporto del centro di documentazione su carcere, devianza e marginalità dell'Università di Firenze indica nei sinti un nodo critico dell'allarme sociale. Il primo cittadino rifiuta l'equazione lombrosiana zingaro-uguale-delinquente, ma non concede sconti a chi sbaglia: "Sono dell'avviso di dare una chance a tutti, una casa, la possibilità di studiare, la normalità. Se poi uno delinque se ne va, in prigione o direttamente al suo paese".
Al bar Roma, alle spalle di Piazza Plebiscito, Giulia, mora e formosa, prepara un cappuccino dopo l'altro. Gli anziani che ogni mattina si fermano da lei prima di comprare il giornale hanno quasi dimenticato quando da bambina seguiva mamma e papà da una fiera di paese all'altra, i giovani non lo sanno. "Perché ricordarglielo?" chiosa Amelia, titolare d'una impresa di pulizie. La cugina parrucchiera annuisce. Qualcuno, lontano dalle curve avversarie, mette forse in conto a un goleador le sue origini?




Debora: "Tutti in fila per il mio pane"
Quando era una scolaretta delle elementari, Debora Spinelli detestava le feste di compleanno. "Invitavo i miei compagni di classe ma non veniva nessuno, anche se sono nata qui e vestivo uguale a loro dicevano che ero la figlia dello zingaro", racconta, incartando una pagnotta calda calda per la signora che ascolta distratta come fosse una storia della tv. Oggi, 40 anni e due figli adolescenti a cui nessuno rinfaccia più l'origine gitana, è la fornaia più gettonata di Lanciano, ma davanti alla porta ha deciso di scrivere Panetteria Console, il cognome del marito, un marchio senza passato. Non si sa mai.
Capigliatura corvina, sguardo tagliente, brillantino al naso, Debora tiene al collo la medaglietta con la foto di papà Angelo che non c'è più: "Mi ha insegnato a lavorare a sei anni, magari adesso sarebbe un reato, io però ne sono sempre stata fiera. Insieme agli altri sei fratelli e sorelle attaccavamo ai VHS le macchinette con cui si potevano vedere Grisù e Paperino e poi le vendevamo. Le battutacce delle amiche mi facevano male, ma le difendevo, soffrivo di una specie di sindrome di Stoccolma". 
Crescendo, ha visto i film di Kusturica, ha ascoltato la musica di Bregovic, capisce la lingua degli avi, il romanì. Eppure ai cantori eccellenti della cultura rom preferisce la routine, l'esempio quotidiano: "Siamo noi i primi a doverci accettare. Ai genitori dei compagni dei miei ragazzi spiego subito che sono rom in modo da lasciarli liberi di venire o meno alle feste di compleanno". E quelli vanno.




Guido: "Con la boxe salvo i ragazzi difficili"


A ripensarli adesso i mille round di cui Guido Di Rocco porta i segni sul volto sbieco da pugile sono i pioli della sua scalata sociale.
"Lo sport è stato la mia chance, quella grazie a cui sono riuscito a farmi accettare nonostante fossi rom", racconta Guido, 55 anni portati da campione, passeggiando nella palestra di boxe dove allena una trentina di ragazzi "difficili" del quartiere disagiato di Rancitelli, il Bronx di Pescara.
Anche lui all'inizio tirava pugni di rabbia, ammette mostrando il nome Margherita sul bicipite: "Sono stato in prigione... mi sono tatuato a mano perché allora non c'era mica l'ago... Dopo però tutto è cambiato".
Un paio di foto in bianco e nero appese alle pareti ricordano il passato aureo, gli anni in cui si allenava con il Pescara Calcio. "Ho conosciuto Tom Rosati, Cadè, Angelillo" continua. Per strada era il figlio dello zingaro, in campo dribblava da furetto. Sul ring faceva scintille: "Ho vestito la maglia della nazionale, ho tenuto alto il nome dell'Italia".
Destro dopo destro, Guido ha dimenticato d'essere stato additato come "nomade" da ragazzino e si è sentito italiano. Straitaliano: "Mi dispiace quando si parla male dei rom, ma penso che la gente ha problemi con quelli nuovi, gli stranieri, e se la prende anche con noi che siamo nati qui e non abbiamo mai creato guai".
Squilla il telefono. La voce si addolcisce: è il figlio Moreno, quello che studia medicina all'università di Chieti.




Carmine: "Ora sono l'infermiere migliore"


Mi ricordo quando con mamma, papà e fratelli giravamo con le bighe e i cavalli, ci spostavamo da un paese all'altro seguendo le fiere, era divertente ma appena facevo amicizia con qualcuno dovevo ripartire". Oggi il cinquantunenne Carmine Di Rocco non può allontanarsi da Pescara salvo scatenare le proteste dei pazienti del distretto sanitario di Montesilvano, riluttanti a privarsi dell'infermiere modello. E non conta che Carmine abbia sangue rom: da 20 anni è in prima linea al pronto soccorso, in sala operatoria, tra i tossicodipendenti del Sert.
"Ho studiato al liceo artistico, volevo fare l'architetto", racconta prendendo sulle spalle il piccolo Christian, il minore dei quattro figli. Dopo il corso da infermiere ha archiviato le ambizioni grafiche, riservando l'estro creativo alla batteria, dietro cui trascorre il tempo libero: "Da ragazzo mi è capitato di essere scartato a un colloquio di lavoro per il mio nome, inconfondibilmente rom. Ma da quando indosso il camice non mi sono mai sentito diverso, in ospedale siamo davvero tutti uguali".
Le notizie che arrivano dalla Francia lo rattristano. "Non è accettabile, cacciare quei poveracci è una forma di deportazione". Ma in Italia, dice, riesce a capire la diffidenza: "La cultura rom è cambiata. Una volta c'era un'etica, rubare per mangiare era accettato ma per arricchirsi no. Inoltre era impossibile trovare uno che spacciasse droga". Anche l'integrazione ha un prezzo, per tutti




Gianni: "Il mio cantiere premiato dall'onestà"


Per quanto si sgobbi è difficilissimo scardinare l'immagine del rom a bordo della Bmw scassata", osserva Gianni Bevilacqua e si accende una Marlboro. "Per carità, anche a me piace la Bmw", scherza indicando il duetto parcheggiato accanto alla Mercedes E220 nel cortile della villa a San Vito Chietino, sulla costa adriatica. Ha lavorato 20 anni per diventare l'imprenditore edile che oggi vanta 300 condomini in manutenzione, 60 cantieri, il restauro appena ultimato di una chiesa del vicinato e cinque operai di fiducia, nessuno dei quali in nero. Una personalità nella zona.
Ma non è stato sempre così. L'impresa più faticosa? "Vincere i pregiudizi", risponde senza pensarci. Quella di Gianni, 42 anni, polo arancione e jeans alla moda, è storia vissuta: "Ho avuto un'infanzia da nomade, senza una casa. Mio padre? Faceva il borseggiatore, doveva crescere un mucchio di figli e quando non c'è da mangiare non si può pensare al resto". Lui è venuto su senza guardare indietro, testa alta e rimboccarsi le maniche, la lezione che ripete ai due bambini: "Fatico da quando sono piccolo. Nessuno mi ha mai regalato niente, ho ottenuto fiducia in cambio d'onestà". Per questo racconta la sua esperienza, ma preferisce non essere fotografato: "Entro nelle case, il mio nome è una garanzia. Ma che succederebbe se l'associassero a un volto rom?". Impossibile distinguere la sua da quella dei concittadini. Eppure, chissà: "Sono italiano, un imprenditore italiano".

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